Mirue – racconto fantasy

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racconto di Giovanni Carmine Costabile

Mirue cantava con gli uccelli e sciamava con le api, leccava le foglie e mangiava i fiori, faceva il bagno nuda nei torrenti.

Gli abitanti di Killarney la consideravano pazza, e le avevano fatto fare il giro degli ospedali psichiatrici della contea, senza che questo servisse a niente.

Continuava a comportarsi come uno spirito delle foreste, insensibile alle pressioni sociali, alle norme e al buoncostume.

Poteva capitare che nel bel mezzo di una piazza piena di gente si accovacciasse e facesse i suoi bisogni davanti a tutti come se fosse sola nel suo bagno.

O che prendesse dal bancone del gelato una coppa di un cliente e corresse a tirarla in faccia a una vecchia signora, ridendo allegramente.

Col passar del tempo, si era capito che non c’era modo di cambiarla, e poiché poteva dare fastidio, ma in fin dei conti era inoffensiva, la si lasciava libera di andare in giro indisturbata.

Di cosa si nutrisse era un mistero, forse di bacche e radici come un procione, e non si sapeva nemmeno dove dormisse, anche se probabilmente aveva una sua tana nel bosco come i conigli.

Era insensibile al caldo e al freddo, e indossava sempre la stessa vestaglia bianca che avrebbe anche potuto essere della madre a giudicare da quanto era vecchia e consunta, macchiata di terra, sudore e altri umori.

Quando compariva in fondo alla strada, se ne poteva sentire l’odore sottovento a decine di metri di distanza.

Una volta era tornata dalla campagna portando un alveare in mano, con tutte le api che le volteggiavano intorno frenetiche, ma senza pungerla, e così avevano preso a chiamarla Regina delle api.

Aveva molti altri soprannomi oltre a quello, e parecchi di questi erano ben meno lusinghieri, ma a lei non importava. Le scivolava tutto addosso come l’acqua del torrente dove si lavava ogni mattina.

Alle 3 di pomeriggio ogni giorno prendeva il tè da O’Malley’s, pagandolo con soldi delle fate. Dove li trovasse era un mistero, poiché non chiedeva mia l’elemosina, così iniziarono a girare le voci che forse anche un’abile borseggiattrice.

Beveva facendo un rumoroso risucchio, eppure cercava di darsi un buffo contegno, alzando il mignolo o cose del genere. Tra un sorso e l’altro cantava una poesia del Poeta, quella intitolata I folletti.

Lassù sulle cime ventose,

Laggiù nelle valli giuncose,

Non osiamo fare i cacciatori

Degli omini teniam gran timori;

Buona gente, bel popoletto,

Che si raccoglie insieme a frotte;

Verde giacca, rosso berretto,

E bianca penna di gufo di notte!

Se qualcuno si sedeva al tavolo con lei, iniziava a raccontare vecchie leggende d’Irlanda, di quelle che si possono trovare nei libri, ma anche altre che non si erano mai sentite, almeno a memoria d’uomo.

Tutti dicevano che aveva una bella fantasia, a inventarle; per celare il dubbio che fossero il lascito di un antico sapere perduto.

Quel giorno, alle 3, ero anch’io da O’Malley’s, quando entrò la compagnia di Deaglan e iniziò a prendersela con Mirue.

«Ehi pisciona hai trovato i folletti? Se vuoi ti faccio vedere quello che ho nei pantaloni, è un folletto bello grosso!»

Tutti a ridere.

«Dove hai lasciato le tue amiche api? Adesso non ti cagano più neanche loro? Ah, è vero tanto ti ci sei già tu a cacarti… addosso!»

Altre risate.

Mirue si mise a piangere e corse in bagno.

«Adesso vado là dentro e do una bella ripassata ai suoi folletti.» Dichiarò Deaglan, fiero della cosa.

«Lasciala stare!» Gridai, lanciandomi contro di lui.

Gli tirai un pugno in faccia, ma erano troppi. Mi buttarono a terra e mi pestarono di santa ragione, mentre Deaglan entrava nel bagno.

Persi i sensi. Quando mi risvegliai se ne erano andati tutti, anche Mirue.

Nel bagno trovai una macchia di sangue a terra.

Mi venne una rabbia tale che andai alla polizia. Mi fecero compilare dei moduli, lasciare la testimonianza, ma mi fecero capire che, a meno che non venisse l’interessata in persona, non avrebbero fatto nulla di concreto.

Pensai di andarla a cercare, così girai per tutto il centro senza trovarla.

Alcuni negozianti l’avevano vista passare, ma non sapevano dove fosse andata.

Doveva essere scappata nella sua foresta e cercarla lì era inutile, avrebbe potuto essere ovunque.

Ci rinunciai.

Non si sentì più parlare di lei per qualche mese, non si faceva più vedere in città.

Avevo iniziato a perdere le speranze, quando la sera di Halloween, rientrando a casa dal pub verso le 11 perché la serata era stata un fiasco, sentii chiamare da un vicolo.

«Sean… Sean…»

Era una voce femminile.

«Mirue?» Chiesi, e mi avvicinai alle ombre da cui proveniva la voce.

Lei saltò fuori dal buio abbracciandomi e mi baciò. La sua lingua era calda e bagnata, sapeva di terra e muschio, ma in maniera afrodisiaca, come quella di una ninfa.

Era completamente nuda.

Me la staccai di dosso per cercare di capire, senza risultare troppo brusco.

«Che ti prende?»

«Oggi è Samhain.»

«Sì. E allora?»

«Torno a casa. Vuoi venire con me?»

Lì per lì pensai che volesse che la accompagnassi nella foresta a fare l’amore.

La prospettiva era folle, ma mi eccitava.

«Mettiti qualcosa addosso! Cosa penseranno se ci vedono? Non hai la tua vestaglia?»

«L’ho lasciata sulla via di casa, me l’ha chiesto Nuadha per fare da tramite.»

«Certo, certo. È ovvio. Come ho fatto a non pensarci?»

Mi guardò, leccandosi le labbra.

«Senti, indossa questa, ok? Non ti copre completamente, ma almeno non sei tutta nuda!»

Le passai la mia giacca. Lei lottò goffamente con una delle maniche prima di riuscire a infilarsela.

Ci avviammo.

«Sean!» Mi fa dopo un po’.

«Si?»

«Mi fa caldo!»

Le toccai la fronte. Bruciava.

Lei mi prese la mano e se la mise in mezzo alle gambe.

Dio, dovetti ritrarre la mano per quanto era calda!

Feci finta di niente e ritrassi la mano.

«Non devi fare queste cose finché siamo in città. Possono vederci!»

Lei mi prese di nuovo la mano e mi succhiò un dito.

Sentii dei brividi di piacere attraversarmi tutto il corpo. Non avevo mai provato nulla del genere.

La baciai io stavolta, e la sua lingua si dimenava nella mia bocca come un serpente, con incredibile forza.

Sentivo il cuore battere all’impazzata e mi sembrava di sognare.

Iniziai a provare caldo anch’io, sebbene ci fosse la nebbia e la temperatura dovesse essere bassa, ma avevo voglia di spogliarmi e correre nudo sull’erba.

Arrivammo al ponte che dalla città portava alla campagna e lei sfuggì alla mia presa, si levò la giacca come un serpente lascia la vecchia pelle e corse sul viottolo sterrato.

La follia mi prese e anch’io mi spogliai e la inseguii nudo.

Non mi importava più di essere visto, se qualche contadino avesse dovuto alzarsi e guardare alla finestra.

Lei mi sopravanzava di un po’, ma riuscivo a distinguere bene il suo culetto vispo che saltava le siepi, rimbalzava sul terreno e si illuminava di luna.

Mi accorsi di avere un’erezione, non sapevo dire da quando, e correvo con quel coso che mi rimbalzava sulla pancia e sembrava non abbattersi neanche per i più violenti urti e scossoni della corsa.

Neanche quando mi tagliai un piede su una pietra, anzi quel dolore mi eccitò di più.

Ci addentrammo nella foresta.

L’avevo quasi raggiunta, quando a un trattò svoltò dietro un albero e sparì.

Non riuscivo a capire che direzione avesse preso.

Poi sentii un odore di fiori, pungente e penetrante, provenire da una zona avvolta nell’ombra.

Attraversai un cespuglio di rovi seguendo quell’odore, e mi punsi dappertutto, ma anche quelle punture continuavano ad eccitarmi.

Emersi in una radura al chiaro di luna, dove si ergeva una quercia secolare tra le cui radici scorreva un torrente.

Mirue era lì che mi aspettava tra i cespugli di asfodelo e di lillà, aveva le gambe aperte, e cantava.

La piccola bimba han rapito

Per sette anni interi;

E poi che il tempo fu finito

I suoi amici non eran più veri.

Dolcemente l’abbiam riportata,

Tra l’alba e ‘l finir della notte,

Si pensava fosse addormentata,

Ma già l’avé presa morte.

Allora l’abbiam custodita

Sul fondo del lago sabbioso,

Su un letto di foglie, stranita,

Finché si riavrà dal riposo!

Ancora il Poeta, ma chi ci pensava?

Attraversai di corsa la radura e mi gettai tra le sue braccia, mentre lei rideva.

Insieme eravamo un nucleo di gioia che irradiava l’intera foresta, potevo sentire attorno gli animali che reagivano a me che la toccavo come se stessi toccando loro.

Ai versi di piacere di lei facevano eco gli uccelli, gli insetti, soffi, fischi, fruscii e nitriti, tutto prendeva vita di noi.

Quando la penetrai, un’ondata di calore mi travolse, come se avessi aperto il portello di un altoforno e vidi più in là un cespuglio che prendeva fuoco.

E non sentivo pericolo, come la cosa fosse normale.

C’era solo lei.

A ogni nostra pulsazione, una nuova ondata di calore, e quel cespuglio ardeva di una nuova fiammata.

Mi sentivo come se mi stessi spingendo sempre più dentro di lei, come se lei mi assorbisse, e a un certo punto sentii dolore al prepuzio, come se qualcosa mi avesse pizzicato.

«Ma che diavolo!?» Le chiesi.

«Non fermarti!» Mi disse.

Diedi un’altra spinta e di nuovo quel dolore, come se una tenaglia mi stringesse il pene.

Lo tirai fuori e vidi che sanguinava.

«Ma che…?»

Lei rise.

«Sei debole. Deaglan ha continuato finché non gliel’ho tagliato.»

«Mi pare convenga essere deboli, a questo punto. Ma… pensavo fossi tu la vittima, quella volta!»

«Io sono Mirue, la bimba perduta. Non vengo da qui, ma da un posto che non puoi capire, e stanotte ritornerò a casa.»

«Aspetta… vuoi dire… Faerie? Sei una fata?»

«»Si, ci chiamate anche così… ma io preferisco Sidhe!»

«O mio Dio!»

«Non perdiamo tempo! Vuoi venire con me? Ti ho scelto perché hai combattuto per me l’altra volta, anche quando io non ho bisogno di difensori.»

«Cosa devo fare?»

«Il sesso è la chiave. Aver bagnato i fiori di asfodelo e di lillà con il seme e il sangue del Difensore la notte di Samhain apre la Via, ma la Spada del Difensore deve spezzarsi perché egli possa percorrere la Via con Mirue.

«Allora acquisterai il nome di Oberon, e impugnerai la Verga del Sapere.»

«Cioè, devo farmelo tagliare? Fossi matto!»

Lei rise.

«Allora addio, Difensore. Adesso sei il Codardo, e non avrai mai il nome di Oberon. Addio.»

Il cespuglio si spense. La foresta tacque.

Un vento caldo soffiò e portò odore di sangue, umori, lillà e asfodelo, e portò via Mirue nel reame delle fate, poi mutò e divenne freddo.

Corsi per riscaldarmi e per fortuna ritrovai la strada fino ai vestiti, mi rivestii e cercai di pensare che avevo sognato tutto.

Ma la mattina dopo mi guardai il pene e c’erano dei tagli, come se fosse stato stretto tra i becchi di una pinza.

E un senso di vuoto, come se avessi perso l’opportunità della mia vita.

Ogni anno, a Samhain, ripercorro quella strada in compagnia di una ragazza diversa, le canto Yeats, ci amiamo tra i cespugli di lillà e l’asfodelo sotto la quercia presso il torrente

Ma gli uccelli non cantano, il cespuglio non si incendia, e lei non ha le chele dentro la vagina.

Lei non è una fata.

Lei non è una Sidhe.

Lei non è Mirue.

Ho provato a evirarmi con coltello dopo averlo fatto, ma non ci riesco.

È più forte di me.

Resterò il Codardo, e non avrò mai il nome di Oberon.

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