la Voce degli Dei – racconto fantasy

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racconto di Paolo Bertoglio

Markir fissava il torrente attraverso i raggi roventi del sole al tramonto.   

Era in secca, nonostante alcune pozze di acqua stantia ancora presenti al limitare delle sponde. Da una di esse lì vicino gli arrivò la puzza di pesce marcio.

Il suo ventre rosso con la pelle cotta dal sole riluceva di sudore. Rimpiangeva la sua camicia. Aveva dovuto seppellirla dopo essere sopravvissuto allo scontro con le soldatesse di Ponte delle Rose. Durante la fuga si era strappata tra i rovi, diventando inutilizzabile. Come se non bastasse, era pure a piedi da tre giorni dopo che i cavalli erano morti di stenti.

Tutto era andato storto dal momento che le donne soldato avevano scoperto gli omicidi perpetuati da suo fratello Tarek ai danni di quei commercianti dell’est. Erano fuggiti a cavallo con la refurtiva, sperando di seminarle una volta arrivati di fronte alla Foresta di Atacred.

Ma il giorno precedente, la squadriglia al loro inseguimento li aveva raggiunti e il povero Tarek si era beccato due frecce nella schiena. Fine della sua corsa. Quella notte, lui l’aveva passata al riparo nell’erba alta a cinque miglia da lì, piangendone la scomparsa.

Ora doveva percorrere i confini della foresta verso sud, senza farsi scoprire dalle soldatesse e soprattutto, senza finire divorato dai possenti lupi che abitavano quei boschi; veri e propri demoni a quattro zampe venerati dai popoli dell’Onumbrack.

 Mordendosi le labbra per la fatica, cominciò a scendere lungo l’alta sponda scivolando su sabbia e pietre finché arrivò all’interno del letto asciutto. Vide una grossa macchia di erba di palude poco più avanti, in cui il terreno scuro e fangoso faceva presagire la presenza di una sorgente sotterranea. Avvicinandosi, la puzza di pesce marcio aumentò. 

«Ho sete.» Bofonchiò, camminando goffamente verso quella minuscola oasi puzzolente.

Inalò una forte dose di miasmi, ma neanche ciò bastò a farlo desistere. Mosse gli ultimi passi e quando le suole degli stivali bucati schiacciarono le zolle nere della pozza, essa si aprì di colpo, facendolo sprofondare al suo interno.

Emerse qualche secondo più tardi in un’esplosione di fango, gridando come un maiale. Si agitò, sconquassando la superficie nera e nauseabonda. Cieco per via del fango che gli ricopriva la faccia, provò a gettarsi una mano sul volto, allontanando più lordura che poteva dalla fronte e dagli occhi.

La vista ritornò, ma le orbite presero a bruciargli. Sulle punte delle dita sentì qualcosa che sfiorava le sue unghie luride e qualunque cosa fosse gli si aggrappò per riuscire a salvarsi. L’erba di palude è molto resistente anche se, pesando più di un quintale ed essendo completamente ricoperto di fango, risultò impossibile a Markir venire fuori del tutto da quella cloaca maleodorante. 

L’orribile testa di un pesce gatto in decomposizione gli finì tra i denti, mentre lui era alle prese con una difficoltosa respirazione dovuta alla fanghiglia che gli era entrata in gola. La sputò via gridando e proseguendo senza successo a strappare brandelli di erba per facilitarsi l’uscita.

C’era un masso davanti a lui, lo scoprì dopo aver strappato le radici degli arbusti. Con un ennesimo urlo provò a saltare fuori dalla buca e per miracolo riuscì ad aggrapparsi alla grossa pietra circondandola con le braccia, ma sbattendoci dolorosamente la fronte contro. Rimase attaccato alla roccia continuando a respirare affannosamente e a sputare fango dalla bocca.

Rimase fermo, cercando di recuperare le forze per un secondo sforzo e quando finalmente ci riprovò, scoprì di essere imprigionato nel fango, senza riuscire a muoversi. Era in trappola ora. Quelle erano sabbie mobili e da solo non sarebbe mai riuscito a salvarsi da lì.

«Adesso cosa faccio?» Piagnucolò disperato.

Gli occhi gli bruciavano da impazzire e li tenne chiusi perché il solo tentativo di aprire le palpebre lo faceva gridare.

Rimase per svariato tempo immobile, cercando di calmarsi e di provare a pensare a cosa fare. Ben presto le sue braccia avrebbero cominciato a fare male e se avesse mollato la presa sulla roccia sarebbe nuovamente scivolato all’interno della pozza senza più uscirne.

Dopo diverso tempo provò lentamente ad aprire gli occhi. Sottili crosticine di sporcizia si ruppero e rimasero incastrate tra le ciglia, ma almeno avevano smesso di bruciare. Davanti a lui c’erano decine di lunghi e resistenti steli d’erba che avrebbero potuto aiutarlo a uscire da lì, se avesse potuto usare le braccia. Volse la testa per guardarsi attorno e scoprì sulla superficie fangosa qualcos’altro che non gli piacque per nulla.

Orme. E non erano le sue. Svariate impronte dell’indiscusso padrone di quella zona dell’Onumbrack: il lupo di Atacred.

Alla sua destra, un sottile varco si era creato dall’andirivieni degli esemplari, segno che quel punto era una meta frequentata dai predatori.

Morirò se non esco di qui. Pensò.

Disperato provò a dimenare le gambe sotto di sé, ma fu inutile. Le sentiva fredde, e presto sarebbero divenute anche insensibili.

Si mise a imprecare alzando la testa verso il cielo e maledicendo la luce del sole che con i suoi aghi roventi gli stava bruciando le retine. Quando l’astro tramontò facendo intravedere le scie rossastre delle Galassie Madri, le sue orecchie colsero il primo ululato che gli fece raggelare la pelle escoriata dal sole. 

Proveniva da davanti a lui, ma sembrava lontano.

Forse mi sono sbagliato. Magari…

Ma in risposta al primo ne arrivò un secondo e poi un concerto di latrati invase la sera di Atacred come uno sciame di mosche su una carcassa. Il branco si era svegliato e aveva fame.

Markir tremò La paura lo scosse, percuotendolo e disegnando sul suo volto un terrore mai provato prima.

Incurante del dolore alle braccia, strinse più forte che poté la roccia alla quale si era aggrappato per non sprofondare, chiedendosi se fosse più opportuno lasciarsi andare e affogare nella melma.

Sono sicuro che soffrirei di meno. Pensò.

Provò a voltare la testa in tutte le direzioni pregando di non vederne nessuno arrivargli alle spalle. Di fronte a lui c’era l’erba alta e non vedeva nulla. Fece un ultimo disperato tentativo di issarsi fuori.

Credette di essere riuscito a smuoversi di qualche centimetro perché i suoi gomiti ora erano più avanti sulla superficie della roccia, e le sue gambe erano tornate a muoversi e a… galleggiare, come se il volume d’acqua nel sottosuolo stesse crescendo.

Sopra di lui il sole era sceso a nascondersi tra le nubi, facendo calare un velo di oscurità su ciò che sarebbe accaduto.

Gli ululati si ripeterono e questa volta ne sentì uno lungo e grave proprio davanti alla pozza.

Markir ebbe la sensazione che l’acqua sorgiva lo stesse risputando fuori. Poteva muovere le gambe, ma proprio quando un filo di speranza pareva rinascere il lui, le braccia gli cedettero. Sprofondò nel fango gelido, venne abbracciato dalla melma che si appiccicò alla pelle delle spalle costringendolo ad annaspare con le braccia, provando a tenere più in alto possibile la testa.

Si convinse che sarebbe morto soffocato. Espirò per l’ultima volta mentre un frenetico scalpiccio sembrò avvicinarsi. I lupi si stavano avvicinando.

Non mi avrete mai. Tarek, arrivo!

Si lasciò andare e le fredde tenebre lo inghiottirono.

Un istante più tardi si sentì trascinare fuori da una forza mostruosa. Avvertì un dolore bruciante alla schiena e il suo cranio venne afferrato da delle mandibole armate di denti affilati che gli forarono un occhio entrando in profondità nella testa. Urlante, venne tirato fuori per metà dalla pozza. Erano giunti a salvarlo, ma con denti e artigli affilati accompagnati da un vorace appetito.      

           

Il suo cuoio capelluto venne strappato via, mentre i denti di un lupo famelico lo trascinavano di forza fuori dal fango.

Un secondo esemplare gli morse la schiena portando via lembi di pelle e carne, mettendo a nudo le ossa della spina dorsale. Spinse con tutte le sue forze quella massa di carne viva e fremente fuori dalla pozza.

I membri alfa del branco affondarono gli artigli in quella massa calda di grasso soffice. La loro preda smise di urlare quando la femmina si fece largo col muso all’interno del cranio scoperto.

Il maschio voltò l’enorme testa verso le sponde del torrente, perché da lì arrivavano altri odori deliziosi, anche se più difficili da raggiungere. Il branco si era appena diviso e una parte si stava spingendo fuori del loro territorio, nella pianura, dove i pericoli per i membri più inesperti erano maggiori.

Piegandosi sulle zampe posteriori, grosse come quelle di un giovane cavallo, fece uscire dalla gola un ululato squillante e vigoroso richiamando tutti verso la pozza del torrente.

Infine, tornò a voltarsi, fissando le mandibole sporche di sangue della sua amata compagna. Ognuno leccò via il sangue dal muso dell’altro mentre le corse affrettate dei loro figli stavano per raggiungerli.

 

Mirsha, la Capitana della squadriglia partita da Ponte delle Rose, fece accampare le soldatesse ad un miglio dalla foresta. Maledicendosi, perché quel grassone di un ladro era sfuggito loro per un soffio.

Il falco lo aveva avvistato poco prima del tramonto, ma non erano riuscite ad arrivare al torrente prima che calasse il sole. Frustando l’aria con la sua lunga treccia di capelli rossi, Mirsha si era girata di scatto e aveva gridato alle sue compagne di tornare indietro nel medesimo istante in cui quell’agghiacciante ululato aveva riempito la pianura davanti a loro.

Il branco si era svegliato presto quella sera. La fame in quel periodo di siccità, li stava spingendo a essere più audaci anche durante le ultime luci del giorno.

Al sicuro nella pianura, aveva fatto accendere due grossi fuochi e ora, in silenzio, stavano ascoltando gli Dei della foresta cantare inni gioiosi alle tenebre.

«Non resterà più nulla domattina.»  Disse una veterana affiancandosi a Mirsha.

Si chiamava Virenia. I suoi capelli corti erano già color cenere benché non fosse ancora anziana. Stringeva la spada corta tra le mani senza toglierla dal fodero. Conosceva meglio di tutte quante il significato di quegli ululati. Quegli animali semidei non sarebbero più andati a caccia quella notte.

«Raccoglieremo qualche osso da portare alla Reggente come prova della sua morte. Il corpo di suo fratello è già a palazzo.»

Virenia sospirò tornando ad agganciarsi la spada al fodero.

«Vado a dormire. Sai come sistemare le altre per la notte. I Gnumash an dir. Sirtelu.»

«Si Virenia, vai pure. Grazie.»

Mirsha la vide scomparire tra le tenebre in direzione della sua tenda. La donna più anziana aveva parlato in tono tranquillo, dopo trent’anni di servizio nelle truppe di Ponte delle Rose. Aveva trascorso innumerevoli notti a sentire cantare quei magici animali. Mirsha invece doveva ancora superare molte prove,benché promossa al grado di Capitana. Il suo primo incontro con i lupi di Atacred era solo rimandato.

Mirsha sapeva che continuare a fissare l’oscurità non serviva più a nulla. Si fidava della sua compagna d’armi e la sua ultima frase in lingua Onumbrack non lasciava spazio a nessun dubbio ulteriore.

Gli Gnumash sono felici. Ascoltali.

La felicità degli Dei della palude e della foresta di Atacred erano la fede giornaliera di tutti gli abitanti di quella terra.

Ripercorrendo il tragitto fino alla sua tenda, pensò a quanta esperienza bisognasse guadagnare per smettere di avere paura degli Gnumash. Di quanta forza una soldatessa avesse bisogno per sopravvivere a un incontro con loro. Virenia non era un bello spettacolo sotto la divisa, lei gliele aveva già viste più volte quelle cicatrici sulle gambe. Ma come medicina alla paura c’era un altro detto in lingua Onumbrack.

I fedaj comii, formet id sottor.

La vera Fede trasforma la paura in coraggio.

Gli Dei, quella notte le avevano dato una mano a fare giustizia. Era un segno favorevole nei suoi confronti. Ma la paura era ancora tanta.

Sopra la sua testa, a una distanza incalcolabile, le strisce rossastre delle Galassie Madri coloravano il cielo tra milioni di stelle lucenti. Il loro colore, quella notte, aveva delle tonalità di rosso scuro in alcuni punti. Mirsha pensò a quel povero disgraziato sbranato dagli Gnumash.

C’era una leggenda che affermava che gli uomini sulla terra fossero i figli delle Galassie Madri. E c’era un semplice particolare a rafforzarne la veridicità. Esso scorreva in ognuno di loro, qualsiasi creatura ne era in possesso seppur in dosi diverse. Solo agli Dei scesi nell’Onumbrack era consentito assumerne a loro piacimento. Avrebbero accresciuto il potere delle Galassie, aumentandone la vastità.

Nella penombra, accanto all’ingresso della tenda, Fhor, il suo scudiero, l’attendeva con un paio di frecce in mano. Quando la vide, accennò un sorriso, facendosi avanti.

«Le ho sistemate. Solo una aveva la lama intaccata. L’altra non ha riportato danni. Le ho ripulite dal sangue e adesso sono come nuove.»

Fhor, era un ragazzino di sedici anni, era suo scudiero da un anno e aveva una cotta per lei ormai da tempo.

«Grazie, puoi rimetterle nelle faretre. Io vado a dormire.»

Il ragazzino guardò il cielo stellato.

«Questa notte le Galassie ci sorridono. Anche per merito suo. Giustizia divina è stata fatta.»

«Ho solo ucciso un ladro. Non c’è nulla di magico in tutto ciò. Vai a dormire anche tu.»

«Si Capitana, buonanotte.»

Mirsha si spogliò e giacque tra le lenzuola profumate con gocce di lavanda. Un privilegio riservato alle soldatesse ufficiali anche quando erano a caccia di malviventi.

Sognò i lupi. Le loro bocche spalancate e ruggenti facevano colare lunghe strisce di bava rossastra. Gli Dei, nel suo sogno, avevano gli occhi azzurri, castani e bianchi. Intorno a loro c’era solo oscurità e un gelo che stringeva le ossa fino a frantumarle.

E infine, una voce venne fuori da quelle oscene mandibole.

«Mirsha.»  E di nuovo. «Mirsha.»

«Cosa volete? Non posso darvi il mio sangue.»

Allungò una mano nell’oscurità e le sue dita toccarono qualcosa di morbido e peloso.

Solo una carezza.

Era ciò che chiedevano questa volta.

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4 thoughts on “la Voce degli Dei – racconto fantasy”

  1. Eva ha detto:

    Bellissimo!!

  2. Kenji Albani ha detto:

    Ciao! Questo racconto è stato editato in vista della pubblicazione?

    1. pav edizioni ha detto:

      Ciao, è stato stato sottoposto a una parte del lavoro editoriale riservato alle pubblicazioni ufficiali

    2. Paolo Bertoglio ha detto:

      Ciao, ti è piaciuto?

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