Il pianto di Arianhel – racconto fantasy

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racconto di Giovanni Carmine Costabile

I festeggiamenti per la nascita del principe Arianhel di Arlen si protrassero per mesi, in un tripudio di canti, danze e colori che rese la corte di Mirianadh il luogo più lieto che esistesse su questa terra. Suo padre, Re Garmon, sfoggiava un fiero sorriso, a rendere luminoso persino quel volto tanto severo, e sua madre, la regina Melirian, diede da subito gran prova di incredibile amore e dedizione, non abbandonando neppure per un attimo il nobile infante, nemmeno per fare i dovuti onori di corte. Il principino godé di tutti gli onori che potessero essere tributati a un essere in fasce, e tutte le benedizioni del Regno ricaddero sulla sua nivea testolina, e ogni genere di dono gli fu recato da ogni dove: l’oro lucente del deserto di Gharon e la soffice seta dei campi di Firian, i destrieri possenti delle piane di Nimlas e le candide arpe dei bardi di Caerlead e altro ancora.
Prima ancora di poter balbettare la parola: «mamma», aveva già più di quanto chiunque possa mai desiderare in una vita intera.
Eppure, piangeva ininterrottamente.
Giorno e notte, notte e giorno, senza sosta, e nessuno poteva dire quale ne fosse il motivo.
Inizialmente tutti pensarono che si trattasse semplicemente del trauma di essere venuto al mondo; lo stesso che tutti i nati di questa terra devono sperimentare quando vedono per la prima volta la luce, respirano per la prima volta l’aria aperta e odono per la prima volta il suono della voce o il soffiare del vento, ma dovettero ben presto convincersi che non era così. I giorni passarono e la cosa andò avanti, senza cenno di poter essere fermata in alcun modo.
A quel punto, i nobili genitori si impensierirono e temettero per la salute della luce dei loro occhi e chiamarono presto a raccolta i più grandi e rinomati tra gli esperti di cure e disagi, malattie e guarigioni che si potessero trovare nel Regno.
«Il cuore è sano» diceva un medico, dopo averlo visitato. «I polmoni funzionano bene» aggiungeva un altro. «Anche i reni e il fegato sono perfetti» chiosava un terzo. E poi: «Il regale bambino è completamente in salute, senza ombra di dubbio, vostre auguste maestà» concludevano, con grande sollievo dei regnanti ma anche con loro grande sconcerto.
«Se è sano, perché piange, in nome del cielo?» Si domandavano i genitori, senza trovar risposta. E Arianhel, intanto, strepitava sempre più forte.
Sebbene il castello di Ramildanion fosse un’ampia reggia costituita da oltre quattrocento camere e innumerevoli labirinti di corridoi, scale, atri e ballatoi; per quanto spesse mura di pietra si potessero stendere tra un’ala e l’altra, e pesanti portoni chiudessero gli accessi, e nonostante alte torri si estendessero ben al di sopra dell’altezza del mastio, non esisteva luogo dove Re Garmon potesse ritirarsi in pace, senza sentire quel pianto e quelle urla. A lungo andare, questa situazione divenne terreno fertile per gli insidiosi tralicci di una mancanza ignota, che avviluppavano nelle loro struggenti spire la sua anima inconsapevole e, straziandone la mente e torturandone il cuore, lo avvolgevano sempre più nel manto di una follia senza nome.
Quanto a Melirian, neppure lei capiva, se non forse nel segreto più profondo del cuore, ma si lasciava trasportare con il piccolo Arianhel e il suo dolore, e, pur senza sapere in maniera cosciente il motivo, soffriva con lui e piangeva con lui, senza poterlo mai lasciare, e ogni mattina i servi portavano a ripulire cataste di lenzuola intrise di lacrime la cui ragione restava un mistero insondabile.
Mesi passarono senza che la situazione accennasse minimamente a mutare: cortei di dottori, sapienti, maghi, stregoni, druidi, gerofanti, sacerdoti, chierici, guaritori, cerusici, rabdomanti, taumaturghi, divinatori, indovini, giullari, giocolieri, intrattenitori, buffoni e molti altri ancora si succedevano al cospetto dei regnanti e del loro piangente fanciullo nel tentativo di diagnosticare qualcosa, somministrare una cura, lanciare incantesimi, invocare miracoli, eseguire prodigi, scrutare un futuro diverso, distogliere l’attenzione dell’infante dal motivo del suo pianto con recite, spettacoli e scherzi di ogni genere: nulla sortì alcun effetto, come se niente fosse stato tentato.
Il Re era ormai sprofondato nella disperazione più furiosa e più cupa: non era raro che rovesciasse i vassoi che gli venivano debitamente serviti, che scagliasse con ira contro i muri i piatti che con tanta dedizione erano stati preparati dai migliori tra i cuochi, che strappasse sdegnosamente le pagine dei libri che più amava, che rimproverasse aspramente chi non aveva colpa alcuna, che congedasse in malo modo consiglieri e nobili che venivano a fargli rapporto o a portargli saluti, tributi, offerte di aiuto e notizie, e che si estraniasse dal governo del suo stesso reame, in cui terribili semi di discordia e malcontento cominciavano a germogliare.
La regina si mostrava deperita e tremante, il suo volto era una maschera di dolore scavata da solchi di lacrime, e non parlava ormai più con nessuno, sebbene, quando era sola col bambino, la si potesse udire dai corridoi condurre animate conversazioni con persone che non si trovavano con lei, e comportarsi come se udisse le loro risposte, sebbene non le trovasse mai soddisfacenti: la cosa peggiore da sapere era il fatto che alcuni dei nomi a cui tanto appassionatamente si rivolgeva appartenevano a individui da lungo tempo defunti, lontani parenti e ancestrali antenati il cui volto non aveva mai potuto vedere in vita sua se non su un dipinto o una statua.
Un giorno, la serpeggiante tensione partorì infine il suo terribile frutto: una delegazione di nobili scontenti capeggiata dal Barone Agravain di Brasque, giunse al castello dichiarando la secessione dei loro territori e l’autonomia dal governo centrale, costituendo un reame indipendente. Lo stesso atto di venire a dichiararlo in persona, sebbene ancora mascherato da magnanimità e correttezza, aveva in realtà chiaramente il profilo di una sfida: «Io non temo di venire a ostentare il mio tradimento davanti a te, e sputare in faccia all’uomo a cui un tempo mi sono prostrato in adorazione giurando fedeltà», questo voleva dire, ma il Re non era più nelle condizioni di capirlo e si limitò ad assentire con aria trasognata, balbettando frasi incomprensibili e frammenti di antiche canzoni.
Il drappello ribelle si congedò con grande arroganza e mostrando gran disprezzo, sputarono per terra, rovesciarono le antiche armature del casato reale e strapparono in pezzi preziosi arazzi, fecero scempio delle dispense e delle cantine, sporcarono il cibo e versarono il vino, devastando barili e ceste, scaffali e botti, uccisero servi e violentarono serve, quindi diedero fuoco alla biblioteca e osarono persino sottrarre la corona reale dalla preziosa teca, dove la si vedeva riposta sempre più spesso, anziché adornare la testa del Re.
Mai in tutta la storia del Regno si era visto un oltraggio simile, neanche ai tempi della Guerra dello scettro di sangue, e quando la notizia si sparse la reazione non tardò a manifestarsi. Non più di quattro giorni erano trascorsi dal delitto che un drappello di dignitari si presentò al maniero, guidato dal marchese Teralar di Marseele e composto da valenti cavalieri quali ser Mysteryn di Nambres e ser Varadyr di Golgabria.
Il corteo si presentò al Re nella Sala del Trono, dove questi languiva ottenebrato dai fumi della disfatta, scosso da forti tremiti e possenti brividi e spasmi che si ripercuotevano su tutte le membra. I dignitari furono colpiti da grande pietà e compassione dal trovarlo in quello stato tanto misero, ma rispettarono le norme del rituale prescritte dalla legge, per onore e dedizione, ma soprattutto per l’affetto che li legava al sovrano, e si inginocchiarono davanti alla tremula figura, baciandone rispettosamente la mano ingioiellata e biliosa.
Pronunciarono un solenne giuramento di vendetta e fedeltà al cospetto del Re.
«La terra che ti è stata ingiustamente tolta sarà riportata sotto la tua egida» proclamò solennemente ser Varadyr.
«La gente che è stata traviata dalle parole del traditore ritornerà a capire la verità che tu testimoni» promise ser Mysteryn.
«La testa di Agravain il traditore decorerà la tua sala da pranzo, e i cuori dei suoi seguaci non pentiti verranno serviti su un piatto d’argento ai tuoi cani» si impegnò Teralar il marchese.
Tutti insieme sguainarono le spade e, alzatele verso il cielo, all’unisono giurarono: «Nessuno di noi conoscerà la pace del focolare, il calore del letto nuziale o il sapore del conviviale banchetto prima che la pace, la giustizia e l’onore siano stati riportati al tuo Regno, prima che l’iniqua ribellione sia soffocata e l’onta subita vendicata. La corona tornerà a sedere sull’unico capo degno di indossarla! Il tuo, o Sire! Su tutto ciò che amiamo, su tutto ciò che onoriamo, su tutto ciò che rispettiamo, noi questo a te signore noi giuriamo!»
Il silenzio attonito del sovrano incosciente fece da silente assenso alla loro dichiarazione.
A macchia d’olio si diffuse la guerra dopo che il drappello dei fedeli al Re si dipartì dall’austera magione a muover battaglia al fedifrago Agravain, chiamando a raccolta tutti i propri alfieri e alleati: se da un lato grandi schieramenti si mossero a supportare la causa della famiglia regnante, d’altro canto nuovi focolai di rivolta si accesero a spalleggiare i facinorosi traditori. Inoltre, con una rapida mossa, il Barone Agravain comandò una sortita oltre i confini del Regno, reclutando tra le sue truppe vaste schiere dei pacifici pastori di Shamras, deportati in schiavitù e piegati alla legge marziale contrariamente a secolari usi e costumi del loro popolo. Grande fu lo sconcerto dei nobili del Regno di Arlen di fronte a tale perfidia e molti morirono nell’incapacità di rivolgere le armi contro degli imbelli per natura, così come molti e molti di più tra i pastori persero la vita nelle cariche di cavalleria regie, carne da macello rispetto a sì prodi cavalieri.
Il marchese Teralar, generale dell’esercito, si rese ben presto conto che occorreva porre fine al conflitto prima che l’eccidio superasse le proporzioni atroci cui già era pervenuto. Riunito il consiglio di guerra, decretò che una delegazione arleniana incontrasse i capi della rivolta e stipulasse con loro una tregua, a violazione del giuramento pronunciato, ma a scanso dell’ira degli dèi per il sangue ingiustamente versato. La delegazione, cui apparteneva lo stesso ser Varadyr, andò incontro al più sleale dei tradimenti, né il loro status di rappresentanti e portavoce poté valer loro la vita: una per una le loro teste furono esposte su pali all’ingresso dell’accampamento dell’esercito di Agravain, vista terribile a contemplarsi e monito palese della violenza, della follia e del terrore che dilagavano nel Regno.
«Per il pianto di un bambino!» Gridarono i comandanti dello schieramento regio nella carica d’assalto nella battaglia campale che seguì, nelle piane di Assavar.
«Per il pianto di un bambino!» Gli fecero eco migliaia di cavalieri e di fanti.
Ma il Barone Agravain aveva previsto l’attacco frontale di rappresaglia e aveva schierato legioni su legioni di pastori di Shamras in prima linea, conducendo invece un nutrito drappello delle sue truppe migliori all’assalto di Ramildanion, ove aveva introdotto le sue spie. I cancelli gli furono aperti ed egli si accinse a guidare il massacro degli occupanti il castello: un ridotto numero di difensori e la servitù.
Fu solo grazie a un’ancella, la candida Shelia, che guidò i regnanti confusi nei passaggi segreti di Ramildanion fino all’uscita nel bosco di Pendall, se la linea reale non fu spezzata e le sale della reggia non furono macchiate del sangue di colui che sedeva sul trono, di colei che gli era legata da nuziale vincolo e del piangente pargolo le cui urla tanto preoccuparono i fuggitivi nel caso avessero richiamato indesiderate attenzioni.
Nel bosco il gruppetto si accampò nel cavo della grande secolare quercia Pendalia, la cui resina si diceva conferisse il potere di vedere il futuro se spalmata sugli occhi, e attese il passar della notte, tra i deliri di Garmon, le conversazioni immaginarie di Melirian e il pianto del piccolo.
Shelia era stupita di essere riuscita ad arrivare fin lì e non sapeva dove altro avrebbe potuto condurli, ora che nessun luogo era sicuro. Pensò al villaggio di Bryman, o al castello di Tirivald, ma nessuna opportunità era sicura e ogni via presentava i suoi pericoli.
Il mattino sorse a squilli di fanfara e Shelia temette di essere stata raggiunta: e così era, ma non dai falsi cavalieri di Agravain. In groppa a un bianco destriero, ser Mysteryn scortava per le vie del bosco il Signore degli Schiavi, il Pastore dei Pastori, Nomedens di Laharat, sua moglie Chaundra e la neonata figlioletta Gywennen. Il pastore aveva unito le sue schiere a quelle del Regno, ribellandosi ai traditori, e dapprima era stata schiacciata la rimanente parte dell’esercito ribelle; poi, nel corso della notte, il castello era stato raggiunto e ripreso.
Aperti i cancelli grazie a un incantesimo di Nomedens, le truppe avevano fatto irruzione mentre Agravain e gli sgherri gozzovigliavano sporcandone le sale già imbrattate di sangue e per ben due volte. La lotta che ne era seguita si era presto conclusa a favore degli assalitori, che avevano così vendicato l’onore del loro sovrano. Il cadavere del traditore era stato decapitato, per assicurargli la sorte che si confaceva alle sue gesta, e simile destino era toccato a tutti i suoi sodali. Ora ser Mysteryn, informato della fuga da un contadino che aveva udito il pianto del principe nella notte, aveva indovinato la destinazione prescelta e vi si era recato, nella speranza di ripristinare con le buone nuove della vittoria l’orgoglio e la dignità di Re Garmon.
Gywennen emise un risolino di gioia infantile all’udire la voce di Arianhel, e il pianto di questi mutò a sua volta in risa.
«I fantasmi… sono svaniti!» Dichiarò la regina Melirian, che improvvisamente non udiva più le voci di genti lontane.
«Sia lode agli déi!» Esclamò Re Garmon, rinsavito.
«Il riso di quella bambina ha spezzato la maledizione» pronunciò ser Mysteryn.
«Evviva la bambina! Evviva il principe! Evviva il Re e la regina!» Eruppe Shelia, in lacrime di gioia.
La corona fu riposta sulla sua degna sede, il capo del sovrano Garmon, e la reggia di Ramildanion, rimessa a nuovo e ripulita, tornò a essere luogo di festa e di grande giubilo del Regno da quel giorno e per molto tempo ancora.

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