Le dita Nee pizzicarono le corde del liuto e il leggero suono dello strumento si diffuse tra il caos delle risate e delle imprecazioni. L’odore di urina e di pane stantio riempiva l’aria insieme al profumo delle candele della taverna.
La voce di Nee inondò il locale e alcuni uomini si soffermarono ad ascoltare la sua canzone che parlava di cavalieri e di antiche creature. I suoi piedi si muovevano con brevi passetti tra gli sgabelli e le gambe degli avventori. Il volto di alcuni era arrossato dal calore e dalla birra, altri digrignavano i denti e ringhiavano infastiditi dalla sua presenza.
Si fermò al bancone e schiacciò l’occhiolino alla vecchia proprietaria di quel posto sulla via esterna al paese.
«Ragazzo, dovresti essere da qualche parte a festeggiare il tuo ventunesimo inverno invece che essere qui…»
Le labbra di Nee si aprirono in un sorriso genuino e le dita sfiorarono le corde per creare una melodia allegra.
«Vecchia Ely, non perderò una serata solo perché per me inizia un altro inverno!»
La donna scosse rassegnata la testa rassegnata per poi tornare a riempire pinte di birra con le mani nodose. Nee si scolò un sorso di birra annacquata e la sensazione di frescura in gola lo ristorò con piacere.
Nella taverna c’era parecchia gente quella sera, alcuni erano soldati, altri erano mercanti. Strimpellare lì era sempre piacevole. Gli avventori di solito non rimanevano svegli mai fino a tardi e si ritiravano con le puttane ai piani superiori.
***
Gli uomini avevano iniziato a disperdersi e Nee si bloccò mentre si portava la pinta alla bocca. Si accorse che una presenza incombeva alle sue spalle.
«Ehi! Cantastorie! Mi piace la tua voce», biascicava a quasi ogni consonante, ma quel tono viscido si srotolò a ogni lettera lungo la schiena di Nee. Il sorriso che si formò sulle sue labbra era tirato.
«G-grazie, signore.»
La mano dell’uomo si arpionò sulla sua spalla con forza in una stretta fastidiosa. Nee fu costretto a voltarsi. Fissò lo sguardo negli occhi del soldato, socchiusi dall’alcool. L’uomo lo superava di almeno due palmi e con la lingua accarezzava in modo lascivo i denti storti e rovinati.
«Io devo… dovrei andare, signore. Si è fatto tardi.»
La mano dell’energumeno rafforzò la presa sulla sua spalla.
«Sai, la padrona di questa topaia del cazzo mi ha detto che non ci sono puttane per me!»
Il respiro di Nee si fece veloce, quel tono e quelle parole non presagivano nulla di buono.
Cercò di fare un passo indietro, ma l’uomo lo strattonò contro di sé. Nee sentiva la carne della spalla andare a fuoco.
«Lasciami, ti prego.»
La risata che proruppe dalla bocca dell’uomo portò gli ultimi avventori a fissare gli occhi su di loro. Nee notò in quel momento che tutte e sei quelle persone sfoggiavano sul petto lo stesso simbolo, erano soldati e compagni di quello che aveva di fronte.
La mole dell’uomo schiacciò il giovane contro il legno del bancone con prepotenza. Nee appoggiò le mani sul suo petto in un tentativo di ribellione. Voleva fuggire da lì, allontanarsi da quel posto e da quel viscido pezzo di merda che aveva di fronte.
«Sarai la mia troia per questa notte.»
Quelle parole si annidarono nel suo cervello come tenebra e un lungo brivido si diffuse nel suo corpo. Il pensiero dell’essere usato, dilaniato e seviziato da qualcuno portò le sue gambe a tremare d’orrore. Il membro dell’uomo gli strusciava sulla pancia. Era duro ed era come se non ci fossero strati di vestiti a dividerli: una sensazione terribile.
Chiuse gli occhi e strinse i denti fino a sentirli scricchiolare.
“Sacrificio.”
Quella parola gli rimbalzò in testa senza che lui l’avesse pensata.
La massa del corpo dell’uomo che lo pressava si ridusse, l’aria tornò a sfiorare il suo corpo e la presa sulla sua spalla si fece leggera. Nee aprì le palpebre e vide l’uomo arretrare e crollare a terra a peso morto. Le sue mani erano rimaste ferme dove prima c’era il petto dell’altro.
La pelle dell’uomo, prima arrossata dall’alcol, era bianca come la neve e le vene si mostravano nel loro reticolo bluastro.
Era morto.
Gli occhi di Nee vagarono per la taverna per fermarsi sui volti spaesati dei soldati.
“Cosa è successo?”
«Io…»
“Sei stato tu.”
«Io devo andarmene.»
Non aveva fatto nulla, aveva solo appoggiato le mani al petto di quell’uomo per respingerlo, aveva forse avuto un colpo al cuore? Lo sguardo di tutti si era puntato su di lui, lo accusavano in silenzio di una colpa non sua.
Camminò per la taverna con la testa bassa. I rumori parevano essersi fermati e tutti gli sguardi, ogni oggetto, ogni angolo in ombra sembrava. Raggiunse la porta, ma due piedi gli sbarravano la strada.
«Ehi tu!»
I rumori e gli odori della taverna tornarono prepotenti a inondare i suoi sensi e, per un breve istante, Nee boccheggiò facendo mezzo passo all’indietro.
Far entrare ossigeno nei polmoni stava diventando difficile. Di fronte a lui si stagliava un uomo pieno di muscoli e cicatrici. Cercò di scappare, ma le dita dell’energumeno si artigliarono alla sua maglia.
«Hai ucciso Parrish!»
«No! No! Non ho fatto nulla!» la sua voce era uscita con disperazione dalla bocca.
L’uomo lo aveva alzato da terra per il bavero della camicia e la stoffa stretta sul collo gli rendeva difficile respirare. Voleva mettersi a piangere e a pregare di essere lasciato in vita.
Nee cercò di liberarsi da quella presa, mentre le lacrime gli scorrevano lungo le guance. Scalciava con i piedi e le mani si appoggiarono sulle maniche dell’uomo per cercare di far entrare aria nel suo corpo, ma era tutto inutile.
“Sacrificio.”
Quella parola tornò a rimbombare insieme ad altre parole che non capiva nella sua testa, una sorta di sussurro antico e incomprensibile.
La presa sulla sua maglia si attenuò e i suoi stivali toccarono terra. Spalancò gli occhi velati dalle lacrime e il primo colore con cui si scontrò fu il bianco della pelle dell’uomo, su cui correva un reticolo violastro di vene, mentre il soldato cadeva all’indietro svuotato della vita.
Lo sguardo di Nee corse alle sue dita tremanti, erano normalissime mani di bardo.
Il rumore secco degli sgabelli che venivano trascinati per alzarsi e il suono del metallo che veniva estratto dal suo fodero, portò Nee a fissare la porta che aveva a pochi passi di distanza.
Era la sua unica via d’uscita. L’unico modo che aveva per sopravvivere a qualcosa di cui non aveva colpa.
Muovere i primi passi gli risultò difficile, gli sembrava di essersi dimenticato come camminare, ma poi le gambe presero il ritmo e iniziò a correre lungo la strada.
Uno strano fuoco si era impossessato di lui: i suoi polmoni accoglievano l’aria gelida e i suoi stivali pestavano il leggero strato di fanghiglia che il nevischio stava creando sul terreno.
«Uccidiamolo!» Quell’urlo gli arrivò nelle orecchie fin troppo da vicino. Era stanco e sapeva di non poter correre per troppo tempo. Le lacrime continuavano a scorrere sul suo viso e il cuore gli batteva forte nel petto.
Il suo passo stanco si fermò di fronte a un bivio. Voltò il corpo verso il paese illuminato dalle torce e dalla luna.
Scosse la testa e la girò verso l’altra direzione. Il bosco si estendeva tetro e minaccioso verso l’oscurità. In alcuni punti nemmeno la luce dell’astro riusciva a penetrarla.
Tornò a guardare il paese e fece alcuni passi verso quella zona. Se avesse percorso quella strada, se fosse arrivato tra le case, avrebbe dovuto raccontare ciò che gli era successo e far capire la sua innocenza. Un pensiero gli sfiorò la mente con sicurezza, era più un sussurro della sua coscienza.
“Chi vuoi che ti creda, orfano?”
Nessuno avrebbe creduto alla sua innocenza. Nessuno avrebbe dato la ragione a un povero bardo cresciuto da solo tra le strade.
Fece alcuni passi all’indietro e il suo mento tremò all’idea di affondare in quell’oscurità che pareva respirare alle sue spalle.
La voce degli uomini che gli davano la caccia si avvicinava e le torce si intravedevano vicine. Chiuse gli occhi. C’era qualcosa in quella foresta che gli intimava di raggiungerlo, un persistente ma soffuso sibilo in lingue antiche che non comprendeva.
“Preferisco morire in quella foresta che tra le loro mani.”
Camminò lungo quel sentiero. Faceva fatica a capire dove metteva i piedi. Le foglie si muovevano tra i fruscii e le ombre. C’era qualcosa che grattava il terreno. Lo sbuffo di un capriolo lo fece bloccare in preda al terrore, quel suono era così vicino. Il suo cuore accelerava a ogni suono.
L’odore di decomposizione e di umidità gli risaliva lungo le cavità delle narici e si aggrappava alla gola con prepotenza. Il gelo della notte ghermiva la sua pelle accapponata senza che lui percepisse il freddo.
Il sentiero era oscurato dalle fronde e i massi erano solo ombre più scure.
La punta del suo piede si scontrò con qualcosa e si rese conto in quel momento quanto fosse facile perdere l’equilibrio nelle tenebre. Cadde a peso morto contro il terreno e la sua testa si scontrò con la corteccia di qualche radice. Il sangue colò dal taglio sopra l’occhio e il sapore ferroso gli inondò il palato, obbligandolo a sputare.
Il dolore si era diffuso in ogni parte del corpo, emise un suono a metà tra un gemito e un rantolo. La guancia era appoggiata sul muschio e il suo odore pungente lo riempiva.
Sbatté le palpebre diverse volte prima di riuscire a mettere a fuoco le fiamme delle torce che correvano verso di lui. Non erano lontane. Si avvicinavano a ogni istante.
Appoggiò le mani sul terreno e si tirò a sedere. I suoi occhi si spostarono e il respiro si fermò per alcuni secondi in gola. Era inciampato nel cadavere in putrefazione di una volpe.
Le voci degli uomini lo distrassero e tornò a respirare. Strisciò all’indietro fino a rannicchiarsi contro le radici dell’imponente albero dietro di sé. Le mani si arpionarono al muschio, le dita sprofondarono nel terriccio umido e Nee serrò gli occhi fino a veder piccoli vermiciattoli bianchi danzare.
Aveva paura.
Era terrorizzato dall’idea di essere ucciso da quegli uomini. Essere picchiato, mutilato e ucciso.
“Morte. Cammina. Vita.”
Quel sussurro tornò ad aleggiare nella sua mente con la sua stessa voce, parole in una lingua che non conosceva ma comprendeva lo stesso.
Digrignò i denti e li serrò con forza. Non poteva urlare o lo avrebbero trovato subito.
Figurò qualcosa passare davanti alle palpebre serrate, una lucina azzurrognola che fluttuava. Il suo mento tremava, ma la curiosità ebbe la meglio. Aprì gli occhi con timore e la paura sembrò placarsi nel suo petto.
Una decina di lucciole danzava nell’aria con quel colore così particolare e diverso dal solito giallo verde.
Si leccò le labbra e allungò una mano per sfiorarne una. Quella si disfò tra le sue falangi per poi ricomporsi sul suo palmo. Non era un insetto, era una piccola fiammella azzurra.
La focalizzazione dei suoi occhi passò dalla sua mano fino a terra. Un movimento del cadavere: la volpe morta si trascinava per mettersi seduta. Il rumore delle sue ossa che tornavano nella posizione originale riempì l’aria con schiocchi secchi. Una parte della gabbia toracica si mostrava nel suo candore e quando la creatura si rizzò sulle zampe, alcuni lembi di organi sbordarono fuori insieme a del liquido maleodorante e ad alcune larve grasse e biancastre.
Il muso della bestiolina si voltò verso di lui. Gli occhi erano stati sostituiti da due di quelle fiammelle, inondando il muso di un alone azzurrognolo.
I fischi e gli urli degli uomini arrivavano ovattati alle sue orecchie, ma erano sempre più vicini. Forse lo avevano visto, ma Nee non riusciva a spostare lo sguardo da quella creatura che non era viva ma nemmeno morta.
Non aveva più freddo e il suo cuore sembrava aver rallentato il ritmo solo guardando il moto pacato delle fiammelle che avvolgevano la volpe. Tutta la paura era defluita via da lui e ora non avvertiva più nulla dentro di sé.
I rumori intorno a lui erano si erano zittiti, ma non gli importava niente.
Allungò un braccio e le dita sfiorarono curiose il manto della creatura. Era morbida. I polpastrelli continuarono a sfiorare la pelliccia rossastra fino a incappare nella ferita sul costato; le ossa era fredde e porose, gli organi molli e asciutti.
«Ragazzino!» la voce ovattata di un uomo lo portò a ritirare la mano e la paura tornò a diffondersi nelle sue vene. Il fiato si mozzò in gola. Il rumore della corsa dei soldati e le loro sagome si presentarono nella sua visuale.
Le zampe della volpe si mossero e la creatura si spostò di fronte a lui, le fiamme negli occhi rivolte ai nuovi venuti.
Il verso stridulo e secco emesso dall’animale portò gli uomini a guardarsi tra loro.
«Che scherzo è mai questo?!» la voce degli umani era fastidiosa nelle sue orecchie, ma non sapeva dare una risposta a quel quesito. Un profondo ringhio si levò dalla gola della volpe e le sue zampe magre e malridotte coprirono altri due passi verso gli uomini.
«Questa è magia nera!» la voce degli uomini era piena di timore; alcuni di loro arretrarono e Nee ne seguì i movimenti. Doveva forse avere paura anche lui di quella volpe? La percepiva come innocua nei suoi confronti, nonostante la ferita e le fiamme, non riusciva a vederla come una minaccia.
Un soldato emise un urlo e colpì la testa della volpe con la lama della spada, facendola crollare.
«No!» gli uscì spontaneo dalla bocca, il suo corpo si era proteso in avanti e la sua mano era andata a sfiorare la coda della bestiola.
L’uomo ghignò raddrizzando la schiena e, man mano che la spada veniva alzata dal cranio spaccato della volpe, questo si ricomponeva con un leggero rumore di sassolini che si scontravano tra loro. In pochi attimi l’animale si risollevò sulle quattro zampe, lasciando tutti pietrificati dallo stupore. Non una goccia di sangue era stillata da quella ferita.
Il tempo si era bloccato e il respiro si condensava in piccole nubi bianche, ma dalla bocca della volpe non fuoriusciva nulla. Il vento ne accarezzava il pelo con gentilezza, ma non smuoveva le fiamme nei suoi occhi.
«Quella è magia nera!» la voce di uno degli uomini si fece sentire spaventata.
“Magia nera? Come può essere magia nera quando quelle fiammelle e quella volpe sono innocue?”
«Capitano, si sono leggende che parlano di creature che possono resuscitare i morti…»
Gli occhi dell’uomo che impugnava la spada saettarono verso quelli di Nee e la volpe rispose con un ringhio e un morso dato a vuoto nell’aria che li divideva.
«Leggende che parlano di Morte e del regno dei dannati.»
I soldati piano piano iniziarono ad arretrare verso il paese, sbraitavano. Il capitano restò lì con quello che aveva parlato, immobili in quel confronto silenzioso.
«Capitano… dobbiamo avvertire il Re. Le leggende dicono che quelle creature siano malate e se si viene toccati si muore.»
Nee si limitò a fissare la volpe con interesse.
Il capitano rinfoderò la spada e fece un paio di passi all’indietro. Nei suoi occhi, Nee ci lesse la promessa che sarebbe tornato. Ingoiò a vuoto un groppo secco di saliva. Per il momento era salvo.
L’animale si voltò e si sedette di fronte a lui.
Un refolo di aria fredda colpì il volto di Nee e un brivido si srotolò lungo la sua schiena. Non era paura quella, era qualcosa a cui non sapeva dare un nome. Non era terrore e non era gelo.
Respirava, ma non lo sentiva. Non aveva paura, ma sapeva che avrebbe dovuto averne.
«Sei stato bravissimo», la voce femminile lo raggiunse da ogni ombra che lo circondava, sembrava provenisse dalla volpe e dal terreno. Era delicata e gentile, ma aveva una nota di solennità.
Una figura ammantata in un mantello nero apparì lungo la strada. Non aveva torce con sé, ma le fiammelle le illuminavano la strada.
«Sei ancora giovane, ma hai un potere immenso che ti scorre nelle vene.»
Nee scivolò all’indietro per rintanarsi ancora tra le radici dell’albero. Negò con il capo e gli occhi rimasero fissi sui pochi lineamenti che intravedeva. La bocca e il naso erano femminili e delicati, ma la guancia destra era deturpata da cicatrici profonde.
«C-chi sei?»
Qualcosa dentro di lui lo spingeva a credere a ciò che la sconosciuta gli aveva appena detto, avrebbe solo voluto allungare una mano e seguirla.
«Io sono Morte.»
Il suo cuore perse un battito. Se lei era Morte, questo significava che era venuta a prenderla.
«I-io sono ancora giovane, non voglio morire.» la sua voce tremava, ma la sua mente restava placida. Tutto era strano.
«Tu non morirai, Nee. Sei uno dei miei ultimi figli.»
“Figlio di Morte?”
Quelle labbra si aprirono in un sorriso gentile e caloroso.
«Gli umani vi chiamano Necromanti perché non capiscono la potenza della magia che scorre in voi, ma sta giungendo il tempo in cui ritorneremo a camminare su queste lande per riportare il nostro credo agli antichi albori.»
Nee spostò lo sguardo da Morte alla volpe. Era stata lei a riportarla in vita? Oppure era stato lui?
«A quale prezzo, Morte?»
La leggera risata di lei rimbombò tetra in tutta la foresta.
«La vita, figliolo, è l’unico contrappeso di questa magia. Uno rinasce e l’altro muore. Tu sei la falce e il respiro. Il giudice e la lama.»
La mano di Morte si allungò verso di lui. Le sue dita erano fini e rosate.
Nee si mise in piedi e coprì quei pochi passi senza tremare. C’era qualcosa che lo richiamava verso quella donna, che fosse un bene o un male non lo sapeva e non gli importava. Dopotutto quel potere che sembrava scorrergli nelle vene lo aveva salvato.
«Sì, Madre, voglio imparare a essere la falce e il respiro di questo mondo malato.»
Un racconto che miscela umana violenza e magia, tenuta nascosta troppo a lungo. Ottimo finale.
Ti ringrazio ♥
Davvero un racconto coinvolgente. I dettagli minuziosi consentono il lettore di immaginarsi lo svolgersi della scena mentre lo si legge!
Bellissimo! Ci sarà un seguito? 🙂
Grazie infinite ♥ Sono felice se i dettagli ti siano piaciuti ♥
Il seguito no, è nato come un racconto solitario, ma se un giorno dovessi decidere di trasformarlo in un romanzo, lo consegnerei di sicuro alla PAV ♥
Grazie ancora
“Sei ancora giovane, ma hai un potere immenso che ti scorre nelle vene” esprime bene il mio pensiero su questo racconto. Ci sono delle descrizioni molto belle, soprattutto nelle parti più organiche e sovrannaturali. Il setting ricorda un po’ Sabriel di Garth Nix ma in chiave molto più grimdark. Nice.